Ragioni della qualificazione del COVID 19 come “malattia-infortunio”
È ancora oggetto di notevoli polemiche, e comprensibili preoccupazioni da parte dei datori di lavoro, la classificazione dell’infezione da COVID 19 tra gli infortuni sul lavoro, con conseguenti possibili profili sanzionatori.
Sebbene la ragione sottostante possa risultare poco intuitiva per i “non addetti ai lavori”, la scelta del legislatore e dell’INAIL ha in realtà un fondamento scientifico solido. La classificazione di talune malattie in questi termini è infatti un portato della medicina legale e delle teorie del Prof. Borri, che equiparando “causa virulenta” a “causa violenta”, ha teorizzato circa un secolo fa la fattispecie della c.d. “malattia-infortunio”.
All’interno di tale categoria sono state ricondotte, in passato, epatite B, C, AIDS.
In particolare, una lettera INAIL del 1993 disponeva di trattare i casi di epatite virale a trasmissione parenterale e di AIDS come infortuni sul lavoro, e non come malattie professionali “non tabellate”.
Dunque, verrebbe da dire, niente di nuovo sotto il sole. Nondimeno rimane fondato l’allarme dei datori di lavoro che abbiano agito, implementando i piani di sicurezza nelle proprie aziende, in conformità al protocollo tra parti sociali e alle linee guida specifiche per i singoli settori produttivi che sono in corso di progressiva messa a punto: costoro rischiano infatti di ritrovarsi comunque esposti ad addebiti di natura civile e penale, nonostante sia in concreto difficile provare la loro responsabilità, specie in un contesto di “allentamento” del lockdown che moltiplica di fatto le possibili occasioni di contagio, rendendo quindi assai meno sostenibile il nesso causale tra malattia-infortunio e “occasione di lavoro”.
Il tema “Infortunio da Covid-19” e i suoi profili assicurativi e di responsabilità saranno tra i temi oggetto dell’evento on line Paradigma «Salute e sicurezza sul lavoro nel “post lockdown”» in programma il 21 e il 22 maggio prossimi.
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