Scarso rendimento: una fattispecie (ancora) “a due facce”? | Avv. Enrico Barraco

Segnalo l’interesante articolo dell’Avv. Enrico Barraco, su Scarso rendimento: una fattispecie (ancora) “a due facce”?.
Il tema dello scarso rendimento sarà approfondito nell’ambito dell’evento organizzato da Paradigma in modalità videoconferenza il prossimo 6 maggio su La gestione dei fenomeni di scarso rendimento.
I. La nozione giurisprudenziale di “scarso rendimento”
Lo scarso rendimento del lavoratore costituisce un motivo di licenziamento che i giudici di merito e di legittimità hanno elaborato attraverso l’interpretazione dell’art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604 e attraverso un giudizio di bilanciamento tra gli articoli 4 e 41 della Costituzione (rispettivamente diritto al lavoro, libertà di iniziativa economica privata); giova pertanto ricordare, in primis, che attualmente non vi è alcuna norma di legge che definisca o menzioni il concetto di scarso rendimento nell’ambito del rapporto di lavoro privato[1].
Il licenziamento per scarso rendimento, dunque, configura un’ipotesi di licenziamento intimato con preavviso, che ha dato origine a due diversi orientamenti giurisprudenziali, essendo stato ricondotto da alcune pronunce alla nozione di giustificato motivo soggettivo, da altre a quella di giustificato motivo oggettivo; pare pertanto interessante analizzare i principi elaborati dai due orientamenti citati, al fine di comprendere se – alla luce delle più recenti sentenze – un orientamento sia maggioritario e prevalente rispetto all’altro, concludendo con una riflessione su quali effetti possa avere sul licenziamento per scarso rendimento la “moratoria” dei licenziamenti disposta dall’art. 46 del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 per il periodo di emergenza sanitaria causato dalla diffusione del virus Covid-19.
II. Lo scarso rendimento come inadempimento contrattuale
In primo luogo, lo scarso rendimento è stato considerato da numerose sentenze come un giustificato motivo soggettivo di recesso del datore di lavoro, ovvero come un “notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro” (art. 3 l.n. 604/1966), rientrando dunque nell’ambito dei licenziamenti disciplinari.
Tradizionalmente l’obbligazione del lavoratore è sempre stata definita come un’obbligazione di mezzi, in quanto i dipendenti non sono tenuti a raggiungere un determinato risultato per l’imprenditore, bensì ad “usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale” (art. 2104 cod. civ.); pertanto – prima di procedere ad un licenziamento per scarso rendimento – è necessario valutare se la mancanza del raggiungimento del risultato atteso sia ascrivibile al lavoratore, il quale si sia comportato con negligenza e, dunque, si sia mostrato inadempiente agli obblighi inerenti al rapporto di lavoro.
Da quanto sin qui detto, emerge con evidenza la difficoltà per il datore di lavoro di provare lo scarso rendimento del dipendente in un eventuale giudizio di impugnazione del licenziamento, trattandosi di un onere probatorio non semplice da assolvere.[2]
Il datore di lavoro infatti deve dimostrare la negligenza del lavoratorein maniera rigorosa, non essendo sufficienti a tal fine dichiarazioni generiche o valutazioni soggettive; lo scarso rendimento del dipendente infatti potrebbe essere causato dal modo in cui è organizzata l’impresa o da fattori socio-ambientali e, in simili ipotesi, il licenziamento sarebbe dunque ingiustificato.
Non basta però la generica negligenza del lavoratore, in quanto l’inadempimento deve essere altresì notevole, essendo pertanto necessario provare che sussiste una enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati al dipendente e quanto effettivamente realizzato nei periodi di riferimento, in confronto al risultato globale della media delle prestazioni di tutti i dipendenti adibiti al medesimo incarico: i giudici di legittimità infatti operano spesso un raffronto tra il lavoratore licenziato per scarso rendimento e i colleghi comparabili, ad esempio, in termini di mansioni svolte, qualifica professionale e anzianità di servizio.
La negligenza del lavoratore provata in giudizio, inoltre, non deve riguardare un singolo episodio limitato nel tempo, ma deve essere caratterizzata da una continuità.[3]
Se il datore di lavoro non riesce a provare i profili sin qui menzionati, il licenziamento sarà considerato illegittimo: così, ad esempio, la Corte di Cassazione ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato da una società per una contrazione delle vendite, evidenziando il mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte del datore di lavoro, il quale – oltre a non aver specificato lo standard produttivo inizialmente concordato col lavoratore – non aveva nemmeno provato il grado di efficienza dei colleghi, né l’imputabilità della contrazione delle vendite alla condotta del dipendente (Cass. 19 settembre 2016, n. 18317).
Il lavoratore, viceversa, dovrà limitarsi a provare che l’inadempimento è dovuto ad una causa a lui non imputabile, ovvero, ad esempio, a ragioni inerenti l’organizzazione del datore di lavoro.
III. Il licenziamento per g.m.o.: il caso dell’eccessiva morbilità
Un secondo orientamento della giurisprudenza di legittimità ha fatto rientrare il licenziamento per scarso rendimento nell’ambito dei recessi per giustificato motivo oggettivo: in tale ipotesi lo scarso rendimento non dipende da una condotta colpevole e negligente del lavoratore, ma determina la perdita completa dell’interesse del datore di lavoro alla prestazione lavorativa.
Si pensi, ad esempio, al caso in cui un dipendente rimanga assente per malattia in modo frequente e a distanza ravvicinata nel tempo, così da rendere oggettivamente inutilizzabile e diseconomica per l’imprenditore l’esecuzione dell’attività lavorativa (c.d. “eccessiva morbilità”); con riferimento a simili situazioni i giudici di legittimità hanno considerato legittimo il licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo anche prima della scadenza del periodo di comportoa causa delle modalità con cui si verificavano le assenze per malattia del dipendente, che restava a casa ogni mese per un numero limitato di giorni, normalmente vicini alle giornate di riposo.[4]
L’impostazione sopra richiamata, tuttavia, sembra essere stata abbandonata dalle più recenti sentenze della Corte di Cassazione, le quali ritengono comunque necessario attendere la scadenza del periodo di comporto prima di intimare al lavoratore il licenziamento per scarso rendimento, pena l’illegittimità del medesimo; i giudici infatti sottolineano che “Le regole dettate dall’art. 2110 c.c.per le ipotesi di assenze da malattia del lavoratore prevalgono, in quanto speciali, sulla disciplina dei licenziamenti individuali e si sostanziano nell’impedire al datore di lavoro di porre fine unilateralmente al rapporto sino al superamento del limite di tollerabilità dell’assenza (cd. comporto) predeterminato dalla legge, dalle parti o, in via equitativa, dal giudice, nonché nel considerare quel superamento unica condizione di legittimità del recesso, nell’ottica di un contemperamento tra gli interessi confliggenti del datore di lavoro (a mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e produce) e del lavoratore (a disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi, senza perdere i mezzi di sostentamento); ne deriva che lo scarso rendimento e l’eventuale disservizio aziendale determinato dalle assenze per malattia del lavoratore non possono legittimare, prima del superamento del periodo massimo di comporto, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo”[5].
Pare evidente pertanto che – se il licenziamento per “eccessiva morbilità” può essere intimato solo a seguito della scadenza del periodo di comporto – lo spazio per un licenziamento per scarso rendimento in quanto giustificato motivo oggettivo appare estremamente ristretto (se non nullo), prevalendo invece la configurabilità dello scarso rendimento come giustificato motivo soggettivo, ove ve ne siano i presupposti.
A tal proposito la Corte di Cassazione – nella recente sentenza 8 luglio 2019, n. 18283 – ha considerato dal punto di vista disciplinare la condotta del lavoratore rimasto assente per malattia reiteratamente per brevi periodi di tempo; il comportamento del dipendente, infatti, era connotato da una profonda negligenza, unita ad un apparente intento di frodare la legge e le norme della contrattazione collettiva, in quanto le assenze venivano comunicate in prossimità dell’inizio dell’orario di lavoro ed avvenivano sistematicamente nei due giorni antecedenti il fine settimana.
La pronuncia giurisprudenziale da ultimo citata sembra dunque corroborare l’abbandono della qualificazione dello scarso rendimento come giustificato motivo oggettivo, avvalorando invece i profili disciplinari della condotta dei lavoratori.
IV. Il licenziamento per scarso rendimento ai tempi del Coronavirus
In questo periodo di emergenza sanitaria, il Governo è intervenuto prevedendo una sospensione dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo dal 17 marzo 2020 al 16 maggio 2020: in particolare, ai sensi dell’art. 46 del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, “A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24, della legge 23 luglio 1991, n. 223 è precluso per 60 giornie nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020. Sino alla scadenza del suddetto termine, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604”.
Tale sospensione riguarda solo le ipotesi di giustificato motivo oggettivo di licenziamento e lascia impregiudicata la possibilità dei datori di lavoro di procedere ad un licenziamento per motivi disciplinari: pertanto, nelle ipotesi in cui lo scarso rendimento sia dovuto ad un inadempimento notevole del lavoratore non pare sussistano ostacoli al recesso per giustificato motivo soggettivo.
Sembra inoltre possibile per il datore di lavoro licenziare il dipendente a seguito della scadenza del periodo di comporto (trattandosi di una fattispecie speciale prevista dall’art. 2110 cod. civ.); sul punto tuttavia è importante ricordare che i periodi trascorsi in quarantena con sorveglianza attiva o in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva non sono computabili ai fini del periodo di comporto (art. 26 d.l. n. 18/2020).
[1]Diversamente, nell’ambito del pubblico impiego, configura un’ipotesi tipica di licenziamento disciplinare il licenziamento per “insufficiente rendimento, dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa (…) e rilevato dalla costante valutazione negativa della performance del dipendente per ciascun anno dell’ultimo triennio” (art. 55-quater, comma 1 lett. f-quinquies), d.lgs. n. 165/2001).
[2]I principi elaborati in tema di onere probatorio si trovano riportati in maniera pressoché identica in numerose sentenze dei giudici di legittimità, tra cui ex multisCass. 10 novembre 2017, n. 26676; Cass. 23 marzo 2017, n. 7522; Cass. 14 febbraio 2017, n. 3855; Cass. 19 settembre 2016, n. 18317; Cass. 22 novembre 2016, n. 23735; Cass. 5 agosto 2015, n. 16472; Cass. 9 luglio 2015, n. 14310.
[3]A tal proposito tendenzialmente la giurisprudenza di legittimità esclude che il fatto di aver subito numerose sanzioni disciplinari possa costituire di per sé una giustificazione del licenziamento per scarso rendimento, “perché ciò costituirebbe una indiretta sostanziale duplicazione degli effetti di condotte ormai esaurite” (Cass. 23 marzo 2017, n. 7522); sul punto, tuttavia, Cass. 5 luglio 2018, n. 17685 ha ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare del lavoratore che eseguiva la prestazione in maniera notevolmente più lenta rispetto ai colleghi, rilevando inoltre che il medesimo dipendente era già stato destinatario di tre provvedimenti disciplinari: secondo i giudici di legittimità infatti “l’istituto della recidiva presenta caratteri autonomi rispetto all’istituto regolato dal diritto penale, costituendo espressione unilaterale di autonomia privata del datore di lavoro, in relazione alla quale l’impugnazione da parte del lavoratore sanzionato è solo eventuale e, in ogni caso, non costituisce causa di sospensione della sua efficacia”.
[4]Si veda sul punto Cass. 4 settembre 2014, n. 18678, secondo cui “la malattia non viene in rilevo di per sé, come si è già detto, ma in quanto le assenze in questione, anche se incolpevoli, davano luogo a scarso rendimento e rendevano la prestazione non più utile per il datore di lavoro, incidendo negativamente sulla produzione aziendale”; tale pronuncia è stata confermata anche dalla giurisprudenza di merito: cfr. Trib. Milano ord. 19 gennaio 2015, n. 1341.
[5]Cass. 7 dicembre 2018, n. 31763; in senso conforme si veda anche Cass. 13 giugno 2018, n. 15523.